Versetto della maldicenza
Il versetto al-Ghiba (in arabo: آيَة الغِيبَة), o versetto della maldicenza, spiega il divieto in merito alla maldicenza e il motivo per cui è stata proibita. In questo versetto, la maldicenza è paragonata al mangiare la carne del proprio fratello morto, e proprio come una persona odierebbe mangiare la carne del fratello morto, dovrebbe odiare anche la maldicenza. Questo versetto fu rivelato riguardo a due compagni del Profeta (S) che avevano sparlato di Salman al-Farsi e Usama ibn Zayd. La menzione di “fratello” in questo versetto è dovuta al fatto che, secondo il versetto al-Ukhuwwah, i credenti sono stati definiti fratelli l’uno dell’altro. Dal punto di vista di alcuni giurisperiti, basandosi sulla frase “la carne del proprio fratello morto”, è vietata solamente la maldicenza nei confronti dei musulmani, mentre è permessa la maldicenza nei confronti dei miscredenti e perfino dei trasgressori. Da un altro lato, basandosi sulla generalità della proibizione della maldicenza in questo versetto, alcuni giurisperiti hanno considerato vietata la maldicenza anche qualora si tratti di miscredenti. Makarem Shirazi sostiene che, secondo il versetto menzionato, il sospetto porta allo spiare, quest’ultimo a sua volta porta alla scoperta dei difetti nascosti delle persone e questa conoscenza causa la maldicenza. Per questo motivo l’Islam proibisce le tre azioni poc’anzi citate.
Testo e traduzione
Il dodicesimo versetto della sura 49 del Sacro Corano è chiamato versetto al-Ghiba:[1]
Occasione della rivelazione
Riguardo al versetto al-Ghiba, che fu rivelato a Medina,[2] sono state narrate due possibili occasioni per la sua rivelazione:
- Secondo al-Tabarsi (m. 548/1153-4), come da lui spiegato nell’opera Majma' al-Bayan, questo versetto fu rivelato in merito a due compagni del Profeta (S), i quali sparlarono di Salman al-Farsi. Essi mandarono Salman dal Profeta (S) affinché procurasse loro del cibo. Il Profeta (S) inviò Salman da Usama ibn Zayd, che era un magazziniere. Usama disse a Salman che il cibo era finito e Salman ritornò a mani vuote. Questi due compagni diedero dell’avaro a Usama e riguardo a Salman dissero che se l’avessero mandato al pozzo di Samiha (il nome di un pozzo pieno d’acqua), si sarebbe seccato. Quindi loro stessi si recarono da Usama per osservare la situazione. Il Profeta (S) disse loro: “Come mai vedo tracce di carne sulle vostre bocche?”. Essi risposero: “O Profeta di Dio (S), noi oggi non abbiamo mangiato carne”. Il Profeta (S) replicò: “Voi avete mangiato la carne di Salman e Usama!”. Dopodiché fu rivelato il versetto al-Ghiba.[3]
- Secondo altre tradizioni, “non sparlate gli uni degli altri” fu rivelato in merito ad uno dei servi del Profeta (S), il quale chiese del cibo ai compagni durante una loro visita al Profeta (S), impedendogli però di vederlo. Lo chiamarono pertanto “avaro dalla lingua pacata” e il versetto fu rivelato in merito a lui.[4]
Note esegetiche
In merito all’interpretazione di questo versetto, Ibn Abbas disse che così come Iddio ha vietato di mangiare la carne di un [animale] morto, Egli ha anche vietato la maldicenza.[5] Secondo questo versetto, nello stesso modo in cui una persona odierebbe mangiare la carne di un [animale] morto, questa dovrebbe anche odiare sparlare di una persona viva.[6] La prima opinione è contro la natura umana e la seconda è contro la ragione e la legge religiosa.[7] L’'Allama Tabataba'i sostiene che “ne avreste anzi orrore!” [nel versetto] allude al fatto che l’avversione che si proverebbe a mangiare la carne del proprio fratello morto è un fatto certo e, senza alcun dubbio, nessuno farebbe mai ciò. Quindi si dovrebbe avere in odio anche lo sparlare di un fratello credente, poiché ciò equivarrebbe a mangiare la carne del fratello morto.[8] L’Imam Khomeini, nel libro Sharh-e chehel hadith, disse che mangiare la carne del fratello morto è la realtà spirituale della maldicenza, e nell’Aldilà la maldicenza apparirà così.[9]
In merito all’analogia della maldicenza con il mangiare la carne di un morto è stato affermato che, nello stesso modo in cui se qualcuno mangiasse la carne di un morto, la persona deceduta non avvertirebbe nulla, nella maldicenza, se vengono dette delle cose cattive alle spalle di qualcuno, quest’ultimo non sentirà niente.[10] L’'Allama Tabataba'i sostiene che la menzione di “fratello” nel versetto è dovuta al fatto che, in uno dei versetti precedenti (Sacro Corano 49:10), i credenti sono chiamati fratelli l’uno dell’altro. Con le parole “della morte” si allude al fatto che la persona di cui si sparla ignora che la gente sta sparlando di lei.[11]
Nel Tafsir-e Nemune, l’ayatollah Makarem Shirazi, basandosi su questo versetto, considera il sospetto la causa dello spiare, lo spiare la causa dello scoprire i difetti nascosti e la conoscenza di questi difetti la causa della maldicenza; l’Islam ha proibito tutte e tre queste azioni.[12]
Precetti giurisprudenziali
Basandosi sul versetto al-Ghiba, i giurisperiti hanno dedotto alcune norme in merito alla maldicenza:
- I giurisperiti si riferiscono a questo versetto per proibire la maldicenza.[13] Sono state date varie definizioni per la maldicenza.[14] L’'Allama Tabataba'i sostiene che il punto che le accomuna tutte è che essa indica qualcosa che viene detto in assenza di qualcuno, qualcosa che se costui lo sentisse, lo turberebbe.[15]
- La maldicenza è considerata un peccato maggiore poiché è stata disapprovata nel versetto menzionato ed è come mangiare la carne di un cadavere.[16]
- È stato affermato che la proibizione della maldicenza nel versetto in esame implica solo la maldicenza in merito ai musulmani, per via della frase “la carne del proprio fratello morto” che non include i miscredenti.[17] Inoltre, nel versetto, l’espressione “qualcuno di voi” è stata considerata una prova del permesso di sparlare di un miscredente.[18]
- Alcuni giurisperiti, basandosi sulla generalità della proibizione della maldicenza in questo versetto, ritiene proibito anche lo sparlare dei non-credenti;[19] ma secondo alcuni il versetto implica solo la proibizione di sparlare dei credenti.[20]
- La maldicenza in merito a un trasgressore è esclusa dall’implicazione generale del versetto e pertanto lo sparlarne è considerato permesso.[21]
Footnote
- ↑ Shāhrūdī, Farhang-i fiqh, vol. 1, p. 199.
- ↑ Ṭabāṭabāʾī, al-Mīzān, vol. 18, p. 305.
- ↑ Ṭabrisī, Majmaʿ al-bayān, vol. 9, p. 203.
- ↑ Ibn Abī l-Ḥātam, Tafsīr al-Qurʾān al-ʿaẓīm, vol. 10, p. 3306.
- ↑ Ibn Abī l-Ḥātam, Tafsīr al-Qurʾān al-ʿaẓīm, vol. 10, p. 3306.
- ↑ Ṭabrisī, Majmaʿ al-bayān, vol. 9, p. 206; Ṭabarānī, al-Tafsīr al-kabīr, vol. 6, p. 87; Ṭabāṭabāʾī, al-Mīzān, vol. 18, p. 323.
- ↑ Ṭabrisī, Majmaʿ al-bayān, vol. 9, p. 206; Ṭabarānī, al-Tafsīr al-kabīr, vol. 6, p. 87.
- ↑ Ṭabāṭabāʾī, al-Mīzān, vol. 18, p. 324.
- ↑ Mūsawī Khomeinī, Sharḥ-i chihil ḥadīth, p. 303.
- ↑ Ṭabrisī, Majmaʿ al-bayān, vol. 9, p. 206; Ṭabarānī, al-Tafsīr al-kabīr, vol. 6, p. 87.
- ↑ Ṭabāṭabāʾī, al-Mīzān, vol. 18, p. 324.
- ↑ Makārim Shīrāzī, Tafsīr-i nimūna, vol. 22, p. 184.
- ↑ Narāqī, Mustanad al-Shīʿa, vol. 14, p. 161; Shāhrūdī, Farhang-i fiqh, vol. 1, p. 199-200.
- ↑ Mūsawī Khomeinī, al-Makāsib al-muḥarrama, vol. 1, p. 381-385.
- ↑ Ṭabāṭabāʾī, al-Mīzān, vol. 18, p. 323.
- ↑ Shahīd al-Thānī, Rasāʾil al-Shahīd al-Thānī, p. 285; Ardabīlī, Majmaʿ al-fāʾida wa l-burhān, vol. 12, p. 339; Makārim Shīrāzī, Tafsīr-i nimūna, vol. 22, p. 185.
- ↑ Ardabīlī, Majmaʿ al-fāʾida wa l-burhān, vol. 8, p. 76,77; Ṭabāṭabāʾī, al-Mīzān, vol. 18, p. 325.
- ↑ Fāḍil Kāzimī, Masālik al-afhām, vol. 2, p. 416, 417.
- ↑ Ardabīlī, Majmaʿ al-fāʾida wa l-burhān, vol. 8, p. 76,77.
- ↑ Narāqī, Mustanad al-Shīʿa,vol. 14, p. 161; Fāḍil Kāzimī, Masālik al-afhām, vol. 2, p. 416.
- ↑ Fāḍil Kāzimī, Masālik al-afhām, vol. 2, p. 416.
Riferimenti
- Fāḍil Kāzimī, Jawād b. Saʿīd. Masālik al-afhām ilā āyāt al-aḥkām. Tehran: Nashr-i Murtaḍawī, 1365 Sh.
- Ibn Abī l-Ḥātam, ʿAbd al-Raḥmān b. Muḥammad. Tafsīr al-Qurʾān al-ʿaẓīm. Edited by Asʿad Muḥammad al-Ṭayyib. Third edition. Riyadh: Maktabat Nazār Muṣṭafā al-Bāz, 1419 AH.
- Makārim Shīrāzī, Nāṣir. Tafsīr-i nimūna. Tehran: Dār al-Kutub al-Islāmiyya, 1371 Sh.
- Muqaddas Ardabīlī, Aḥmad b. Muḥammad. Majmaʿ al-fāʾida wa al-burhān fī sharḥ irshād al-adhhān. 1st volume. Qom: Daftar-i Intishārāt-i Islāmī, 1403 AH.
- Mūsawī Khomeinī, Sayyid Ruḥ Allāh. Al-Makāsib al-muḥarrama. 1st edition. Qom: Muʾassisa-yi Tanẓīm wa Nashr-i Āthār-i Imām Khomeinī, 1415 AH.
- Mūsawī Khomeinī, Sayyid Ruḥ Allāh. Sharḥ-i chihil ḥadīth (Arbaʿīn ḥadīth). 24th edition. Qom: Muʾassisa-yi Tanẓīm wa Nashr-i Āthār-i Imām Khomeinī, 1380 Sh.
- Narāqī, Aḥmad b. Muḥammad Mahdī. Mustanad al-Shīʿa fī aḥkām al-sharīʿa. Qom: Qom: Muʾassisat Āl al-Bayt, 1415 AH.
- Shahīd al-Thānī, Zayn al-Dīn b. ʿAlī. Rasāʾil al-Shahīd al-Thānī. Qom: Kitābfurūshī-yi Baṣīrat, [n.d].
- Shāhrūdī, Sayyid Maḥmūd. Farhang-i fiqh muṭābiq bā madhhab-i Ahl al-Bayt. Qom: Muʾassisat Dāʾirat al-Maʿārif al-Fiqh al-Islāmī, 1385 Sh.
- Ṭabarānī, Sulaymān b. Aḥmad. Al-Tafsīr al-kabīr: tafsīr al-Qurʾān al-ʿazīm. Irbid, Jordan: Dār al-Kitāb Thiqāfī, 2008.
- Ṭabrisī, Faḍl b. al-Ḥasan al-. Majmaʿ al-bayān fī tafsīr al-Qurʾān. Tehran: Naṣir Khusruw, 1372 Sh.
- Ṭabāṭabāʾī, Sayyid Muḥammad Ḥusayn al-. Al-Mīzān fī tafsīr al-Qurʾān. Beirut: Muʾassisat al-Aʿlamī li-l-Maṭbūʿāt, 1417 AH.